NEBBIE, PORCI E SALAMI

MITI E RITI DEL MAIALE NELLE TRADIZIONI DELLA PIANURA

ricerca a cura del dottor Pierluigi Calcaterra

 

 

 INDICE

  1. Il Medioevo
  2. Un santo in paradiso
  3. Duplicità del porco
  4. Nomina sunt numina
  5. Razze e storia
  6. Il porco di pianura
  7. Macellazione
  8. I grassi
  9. Il norcino
  10. Salumi e insaccati
  11. Il testamento del porco
  12. Ricette

 

 

IL MEDIOEVO

Se è vero che l’allevamento suino è praticato fin da epoche remote e in tutte le civiltà, per quanto riguarda l’Europa continentale e quindi anche la pianura, è col Medioevo che si diffonde in maniera capillare e stabile. Le invasioni di tribù germaniche tra il IV e il IX secolo determinarono profondi cambiamenti economici e negli usi alimentari. Per queste genti seminomadi il cibo per eccellenza era la carne ed in particolare quella suina. Si può stabilire una sorta di "confine" tra il prevalere dell’allevamento suino nelle aree più profondamente investite dalle conquiste barbariche, e quelle ad allevamento ovino dove il substrato "romano" resta predominante. Più o meno il confine tra Aemilia (Emilia) e Romania (Romagna).
Inoltre l’estendersi delle aree boschive e degli incolti dovuto alla crisi dell’impero romano ed alle spoliazioni delle campagne, diffuse ovunque l’allevamento brado dei suini.
Per tutto il millennio medievale infatti le mandrie di maiali venivano allevati in stato di semilibertà nei boschi. Questa forma di allevamento era talmente importante che i boschi venivano "misurati" in base al numero di maiali che potevano nutrire. Le piante tipiche della foresta planiziale, faggi e querce in particolare, davano abbondante cibo, faggiole, ghiande e corniole, alle numerose mandrie suine. Molti documenti ci mostrano il guardiano dei porci battere con un bastone un faggio o, più frequentemente una quercia, per farne cadere i frutti tra le golose grife delle mandrie.
Altro indizio dell’eccezionale importanza dell’allevamento del maiale, sono gli statuti che regolano la figura giuridica del porcaro. A partire dal longobardo editto di Rotari fino alle leggi comunali e signorili, il porcaro è una figura prevalente e tutelata che emerge dalla massa dei servi addetti ad altri lavori agricoli, tanto che la sua uccisione o il suo ferimento comporta pene e ammende ben superiori rispetto ad altri lavoranti.
I maiali del Medioevo erano però ben diversi da quelli attuali. Erano piccoli, magri, snelli, abituati alla vita dei boschi e incrociati con i cugini selvatici; cinghiali. Dai documenti iconografici emergono numerosissime razze dai mantelli rossi, neri, bianchi, maculati o cintati.
Da allora in poi il fido suino non ha mai smesso, fino a tempi recentissimi, di allietare e di rendere meno miserevole la povera mensa del contadino.

 

UN SANTO IN PARADISO

Dal Medioevo ha origine la leggenda, tenacemente diffusa fino a tempi recentissimi, che associa il maiale a Sant’Antonio abate.
Il greco – egiziano Antonio, nato verso la metà del III secolo D.C. e morto centenario, è una delle più grandi figure di eremita del cristianesimo primitivo a forte connotazione ascetica. Vissuto per decenni tra isolamento e privazioni nel deserto tra mar Rosso e mar Morto ( la mitica Tebaide) , ha dovuto subire le celebri "tentazioni" del maligno che spesso gli artisti medievali rappresentavano sotto le spoglie di un maiale, in questo caso simbolo dei vizi.
Ma la duplicità del nostro animale è ben presente nell’iconografia del santo, sempre accompagnato da un pacifico e benevolo porcello.
L’origine dell’iconografia e dello straordinario successo di Antonio come protettore degli animali, e dei maiali in particolare, risale al secolo XI quando una forte epidemia di ergotismo( grave intossicazione alimentare dovuta ad una muffa, Claviceps purpurea, che contamina i cereali.) venne curata con lardo e provocò guarigioni miracolose proprio nei pressi di alcune reliquie del santo nella Francia meridionale. Da allora, grazie ad un’abile azione "pubblicitaria" dell’ordine degli antonini, il santo divenne il protettore invocato per ogni genere di infiammazione grave. Oltre all’ergotismo, l’erpes zooster (appunto "fuoco di S. Antonio), la sifilide e poi la peste.
Dai bruciori delle malattie, agli incendi, al fuoco infernale, il passo è breve ed il santo venne sempre più invocato per la salvezza dell’anima , oltre che per la guarigione del corpo. L’associazione col maiale ne ha fatto uno dei santi più popolari e in tutte le stalle fino a pochi decenni fa si poteva notare l’immagine dell’eremita barbuto appoggiato al suo bastone con campanella e accompagnato dal fedele porcello.
Questa popolarità ha dato origine ad un gran numero di leggende sul santo e sul suo accompagnatore suino. Racconti che venivano narrati la notte del 17 gennaio, festa del santo, attorno al falò beneaugurale che ne bruciava "la barba".
La straordinaria fortuna del legame S. Antonio – maiale ha permesso all’ordine degli antonini di avere, fino a ‘700 avanzato, deroghe alle sempre più restrittive norme che proibivano la circolazione dei maiali nelle strade cittadine. I "maiali di S. Antonio" con la loro campanella erano liberi di scorrazzare nelle strade di città e villaggi e venivano nutriti dalla devota carità popolare , per essere poi consegnati in autunno ai conventi degli antonini per il rito sacrificale della macellazione e la benedizione del lardo, usato poi nella cura delle infiammazioni.

 

DUPLICITA’ DEL PORCO

"Porcus sive spurcus". Riconducendolo ad una etimologia improbabile i moralisti medievali associavano il vizio col rotolarsi del maiale nel fango dei propri escrementi.
In realtà sarebbe un animale pulitissimo se avesse a disposizione abbondante acqua corrente.
In quanto non può sudare il porcello cerca di refrigerarsi come può e in mancanza d’acqua si rotola in quanto di più fresco trova, appunto il fango o le proprie deiezioni.
Ma le spiegazioni razionali non intaccano minimamente il simbolico.
Ed appunto nella complessa simbologia del porco si riflette il legame strettissimo che da millenni l’uomo ha con la razza suina.
Ha spesso rappresentato ignoranza, ingordigia, egoismo, lussuria.
Nell’antico Egitto i porcari non potevano entrare nei templi e potevano sposarsi solo tra loro, come una casta esclusa e reietta.
Superfluo ricordare la pregiudiziale mosaica in quanto animale che ha si la zampa fessa, ma non rumina. Gli storici tendono ad interpretarla come mezzo di netta separazione dagli idolatri Galilei e Filistei, noti allevatori di porci. Ma ancora una volta il razionalismo probabilmente non coglie tutta la portata simbolica di una proibizione rimasta intatta nella millenaria storia del popolo eletto.
Così come non soddisfa del tutto la "razionale" spiegazione della proibizione islamica col fatto che i suini non sarebbero adatti alla vita nomade.
Tornando all’antichità, Circe trasformava gli uomini in porci dopo averli lusingati con la sua bellezza.
Col cristianesimo il maiale diventa il simbolo del male e una delle rappresentazioni del demonio. Nel vangelo sembrano prevalere riferimenti negativi: dal "dare le perle ai porci" ai demoni che scacciati dal corpo umano vengono trasposti in quello di una mandria di porci che precipita nel burrone, fino al figliol prodigo che sconta i suoi peccati di egoismo, superbia e lussuria facendo da guardiano ai porci. Ma S. Antonio riabilita il nostro animale.
Anche nella mitologia classica si trovano aspetti positivi. Enea termina il suo girovagare quando incontra una scrofa con trenta porcellini. Ulisse finalmente tornato ad Itaca incontra per primo il porcaro Eumeo ed insieme sacrificano un suino.
Maiale come casa dunque, rifugio caldo e sicuro, come nella mitologia cinese.
Dunque nulla di lineare, di "chiaro e distinto", ma i grovigli dell’immaginazione, dell’inconscio, del simbolo e della magia. Forse frutto della cattiva coscienza dell’uomo che dal porco trae enormi piaceri e quindi deve pagare lo scotto del senso di colpa di chi tutto prende senza nulla , o quasi, dare.

 

NOMINA SUNT NUMINA

Le parole sono rivelatrici di entità superiori. E di sensi e di significati complessi.
Partiamo quindi dalle parole per cercare di comprendere quest’animale che ci è sempre stato così vicino e vitale alla nostra sopravvivenza.
Lo abbiamo mal ripagato, proprio a partire dalle parole.
"Maiale" è un epiteto che pochi gradiscono. E’ ritenuto ingiurioso, offensivo, molto più di altri epiteti animaleschi e rivelatore della nostra indiscutibile e "vergognosa" vicinanza al nobile suino.
"Porco" è caricato di valenza ancor più negativa, di passioni inconfessabili, di frequentazioni licenziose o decisamente illecite, di piaceri disdicevoli e nefandi, di perversa immoralità. Se usato come aggettivo connota della più grave negatività il sostantivo al quale si riferisce, fino agli estremi insulti della blasfemia.
Ancor peggio se analizziamo la versione femminile. Accanto all’ingenuo ed innocuo "scrofa", troviamo il ben più pesante "troia", dall’inequivocabilmente negativa connotazione sessuale. Un poco più morbida, quasi ammiccante la definizione di "porca". Anche riferita alla progenitrice Eva più che un insulto sembra un intercalare di un monologo mentale, quasi una licenza poetica. Ma una "porcata" è veramente qualcosa di riprovevole.
Ripiombiamo comunque nel greve con "troiaio" e "troiata" anche se con connotazione più bonaria rispetto al vocabolo primitivo. Ritorniamo alla leggerezza e quasi gaiezza con "porcella" e "porcellina" quasi che diminutivi e vezzeggiativi rendano più leggiadro il senso ultimo attribuito al vocabolo.
Raggiungiamo infine le sottigliezze della retorica con l’iterativo "porca troia".
Maggior tranquillità sembrano annunciare i "porci comodi" ma con borghese riprovazione per una vita non economicamente attiva e dedicata ai piaceri.
Nel dialetto resta la sottigliezza che distingue il "nimal" riservato esclusivamente al suino, dal più pesante " béstia" che accomuna tutti gli altri animali. "Loegia" è accomunato all’italiano nei significati poco edificanti per una donna.
Questo leggiadro florilegio vale per l’intera babele delle lingue. Valga per tutte l’insultante "pig" che gli inglesi affibbiano al poliziotto
Nominiamo ciò che amiamo, nominiamo ciò che temiamo. Dare un nome ci rassicura e avvicina ciò che appare estraneo. I molti sensi che abbiamo costruito sulle parole che denominano il "sus scrofa domesticus" sono li per dirci che questo animale ci è molto vicino, è parte della nostra storia.
Le diavolerie dell’ingegneria genetica con i suini – pezzi di ricambio per i nostri organi malandati, sono una conferma che torna a rassicurarci ed inquietarci.

 

RAZZE E STORIA

Dalla classificazione settecentesca di Linneo, sappiamo che il nostro maiale è catalogato come " sus scrofa domesticus". Ma nella sua storia plurimillenaria (ossa di maiali risalenti al VII millennio A.C. sono stati ritrovate in grotte del medio oriente) ha messo su una numerosa famiglia di cugini vicini e lontani.
Fino a tutto il 1800 c’erano miriadi di razze dalle forme e dimensioni variabili, con o senza pelo, dal colore del mantello che variava dal nero al rosso, dal rosa al cenere, dal bianco al bluastro, con tutta una serie di incroci maculati, striati e cintati.
Ogni zona aveva la sua razza tipica, con caratteristiche fisiche e merceologiche ben identificate. Forse è qui l’origine della enorme differenziazione per forme, dimensioni, uso di parti del corpo dell’animale, impasto e mescolanza con altri elementi, dei vari salumi ed insaccati che sono presenti in tutta Europa ed in particolare in Italia.
In Lombardia erano diffusi i porci neri, ma non ovunque, tra Brescia e Mantova era diffusa una razza bianca. Nel giro di pochi chilometri tra Emilia e Romagna, si passava dalla nera di Parma dal notevole peso e dalle carni sode, alla razza di Bologna più setolosa, alla cintata tra Reggio e Modena.
Celeberrima dalle iconografie medievali la cinta senese, quasi scomparsa pochi anni fa ed ora fortunatamente recuperata ed allevata. In Piemonte e Sardegna prevalevano le razze bianche, mentre nel regno di Napoli una particolarmente pregiata razza nera.
Questo grande bailamme di razze, incroci, miscugli e varietà caratterizzava qualsiasi specie animale e vegetale fino all’ottocento e caratterizzava una zona quanto il suo paesaggio. Oggi ne paventiamo la scomparsa e la rimpiangiamo con l’asettico nome di biodiversità.
L’inizio della fine è nelle prime ricerche di genetica e nella passione, tutta inglese, per la selezione delle razze animali.
Proprio ad un inglese, lord Malmesbury, ambasciatore presso i Borbone di Napoli, si deve uno dei primi grandi successi tra incroci di razze diverse. Il nobile, da gran buongustaio, rimaneva estasiato dai sapori intensi degli insaccati che assaggiava presso i nobili napoletani. Decise quindi di incrociare la razza locale, la nera casertana o pelatella per l’assenza di setole, con il più robusto ma insapore maiale dello Yorkshire. Il risultato fu talmente straordinario che gli inglesi provarono una serie impressionante di incroci. Anche i principi reali si dedicarono all’impresa, creando la varietà windsor.
Da allora in poi l’estrema facilità con cui si potevano selezionare maiali con caratteristiche ben precise ne ha addirittura influenzato la classificazione; maiali da coscia o da lardo o da insaccati ecc…
Arriviamo quindi ai nostri tempi dove pochissime razze dominano il mercato mondiale, a parte poche pregevoli eccezioni recuperate.
La diversità non sta più nelle razze quanto nelle forme di allevamento e soprattutto di alimentazione.

 

IL PORCO DI PIANURA

Con la progressiva scomparsa, a partire dal basso Medioevo, della foresta planiziale, l’allevamento brado venne sempre meno praticato e confinato in aree sempre più marginali, soprattutto nelle zone più difficili allo sfruttamento agricolo; lungo fiumi e torrenti e nelle brughiere. Fino a tutto il ‘700 comunque l’allevamento brado rimase una voce di una certa importanza nell’economia agricola della pianura.
Con la rivoluzione agricola della seconda metà del ‘700 che investe dapprima la pianura lombarda e poi quella emiliana e piemontese, le cose cambiano anche per il maiale. L’allevamento passa in maniera definitiva dai boschi alla stalla . la stabulazione con razze "inglesi" di colore roseo e con poche setole, è un fatto ormai accertato già nella prima metà del XIX secolo.
Paradossalmente questo profondo cambiamento è conseguenza di un altro tipo di allevamento, quello bovino. Nelle cascine lombarde, piemontesi ed emiliane, il circolo virtuoso tra foraggio – mucche da latte – trasformazione casearia e letame, permette il grande impulso agricolo alla base di ogni sviluppo moderno. Proprio gli scarti delle aziende casearie , il siero o latticello, diventa il nutrimento base col quale ingrassare l’onnivoro suino. Accanto ai caseifici sorgono moderne porcilaie che genialmente fanno di un prodotto di scarto una fonte di ingrasso. Qualsiasi altro tipo di scarto viene trasformato in grasso dall’adattabile suino. Quelli della molitura di grano e granoturco, della pilatura del riso, della spremitura di semi oleosi della fermentazione della birra ecc… ingrassavano schiere di maiali. Un vero animale "ecologico" che "ricicla" tutto. Da allora è indissolubile il legame tra agricoltura padana ed allevamento suino
Non cambia solo l’allevamento padronale in stalle più o meno grandi con decine o centinaia di animali. Anche il contadino singolo che ha sempre tratto sostentamento per la propria famiglia dall’allevamento di un singolo porco che forniva la parte preponderante, se non unica, di proteine nobili e lipidi alla sua magra dieta, cambia il sistema di allevamento. Anche il piccolo contadino proprietario di un minuscolo appezzamento o un bracciante dipendente da un grande proprietario terriero, allevano il proprio porco di razza "inglese" e col sistema della stabulazione. Anche in questi casi qualsiasi tipo di scarto commestibile serviva ad ingrassare l’animale.
Sia di grande allevamento che del piccolo contadino comunque, il maiale dell’ottocento e del primo novecento è si profondamente diverso dai suoi antenati, ma anche dai suoi pronipoti attuali.
In una società povera il grasso è simbolo di benessere ed al maiale proprio questo è sempre stato chiesto; il grasso. Gli animali erano molto pesanti, fino a due quintali, e la percentuale di lipidi molto elevata. L’alimentazione era molto abbondante e si calcolavano 6 o 7 chili di cereali per un chilogrammo di carne suina.
I cambiamenti sociali ed economici degli ultimi decenni hanno profondamente influenzato l’alimentazione, spesso con irrazionali manie dietetiche.
Come ai tempi di S. Antonio il povero animale è tornato ad essere simbolo del male, non più sotto le spoglie di Belzebù, ma di colesterolo e trigliceridi.
Come sempre il maiale si è adattato, si sono migliorate le razze e razionalizzata l’alimentazione. Ora bastano 2,5 – 3 chilogrammi di cereale per uno di carne suina. Questa poi ha contenuti lipidici e di colesterolo enormemente più bassi di un tempo e paragonabili al più asettico ed insapore dei polli.
Per fortuna restano differenze nella qualità e nel sapore delle carni in base al tipo di allevamento, e la protezione legislativa dei ben più pregiati maiali nazionali rispetto agli scialpi e "tecnologici" danesi ed olandesi sarà la sola garanzia del sublime gusto degli insaccati nazionali a difesa dell’omologazione comunitaria in nome di presunte norme igieniche.

 

MACELLAZIONE

Da tempo immemorabile l’uccisione del maiale caratterizza i mesi dal tardo autunno al pieno inverno. Era un rito sacrificale ed una festa per tutta la comunità che vedeva assicurata la razione alimentare fino ai raccolti primaverili.
Nell’antica Roma durante le feste saturnali che a metà dicembre celebravano la fine dei lavori agricoli, si sacrificava un grosso porco al dio Saturno.
In tutti i calendari medievali, che ad ogni mese associano un lavoro agricolo, dicembre è rappresentato con l’uccisione del porco.
Le tecniche di uccisione erano poche ed elementari, ma richiedevano decisione e mano ferma.
A volte l’animale veniva stordito con un martello o un’ascia. Poi un colpo al cuore tra le costole sotto la zampa anteriore. Più diffuso lo scannamento che recideva la vena iugulare. Solo in poche zone ristrette, e tra queste il milanese, stordimento ed uccisione coincidevano con un pesante punteruolo che spaccava la fronte dell’animale.
La tecnica della sgozzatura resta la più diffusa soprattutto perché permetteva di raccogliere il sangue dell’animale. E’ proverbiale che del porco non si butta nulla e col sangue si facevano dolci ed insaccati ("al masapan").
La macellazione è una festa ed un rito collettivo al quale partecipa tutta la famiglia e la comunità contadina.
Subito dopo l’uccisione l’animale veniva introdotto in mastelli d’acqua bollente preparati dalle donne, per lavarlo e ammorbidire le setole che poi venivano raschiate con appositi coltelli. Meno diffuso era il sistema "cum focho", cioè la bruciatura delle setole con paglia accesa.
Terminate queste operazioni l’animale veniva appeso per le zampe posteriori a due ganci o ad una scala e sventrato partendo dall’inguine. Si estraevano le interiora, rognoni, fegato, cuore, polmone, trippe e cervello, che dovevano essere consumate in fretta per la facile deteriorabilità. Le donne procedevano al lavaggio e alla salagione degli intestini che servivano agli insaccati, anche se si utilizzavano abbondantemente intestini bovini ed equini. Si procedeva alla divisione dell’animale in due parti, le mezzene, una delle quali poteva aver attaccata la testa, anche se ci sono tradizioni diverse da zona a zona. Spesso la testa, simbolo dell’animale e trofeo, spettava al signore o al potente locale.
Solo le interiora venivano consumate fresche ed erano il punto culminante della festa dell’uccisione, quando finalmente la famiglia contadina poteva saziare la fame atavica di carne e grassi.
Tutte le altre parti dell’animale venivano conservate ed erano la dispensa carnea per lunghi mesi.
Le due tecniche più usate erano la salatura e l’affumicamento, quest’ultima però solo in zone di influenza tedesca e praticamente sconosciuta altrove.
Il sale non solo conserva perfettamente la carne, ma trasformando i nitrati in nitriti, fissa la mioglobina che dà alla carne il caratteristico colore rosa scuro.
Fin dall’antichità si hanno notizie della salagione di mezzene intere o di parti singole, in particolare le cosce per la produzione di prosciutto
L’uccisione del porco è una festa attesa tutto l’anno che rinsalda i legami di comunità. I giochi e gli scherzi fanno parte pienamente di questi legami. Ai bambini veniva legato alla mano un minuscolo salamino appena insaccato e ci giocavano tutto il giorno come oggi con un palloncino gonfiato. A questo proposito l’elastica e tonda vescica dell’animale serviva perfettamente allo scopo, almeno fino al suo uso per insaccare.
Nel bergamasco dopo l’uccisione, si mandava qualche ragazzetto in giro per le cascine a richiedere uno strumento assurdo ma dichiarato indispensabile, lo "sguraoregie". Al povero ragazzo dopo aver girato alcune cascine veniva rifilato un sacco contenente un pesante pietrone con la raccomandazione di non posarlo mai a terra per l’estrema delicatezza dello strumento. Tornato a casa stremato si svelava lo scherzo e lo si prendeva bonariamente in giro magari con l’offerta riparatrice di un pezzo di interiora cotte e di un bicchiere di vino.
Nel Veneto si ripeteva lo stesso rituale mandando a chiedere "lo stampo del salame".
Il gioco e lo scherzo accentuano la ritualità di quello che era uno dei momenti essenziali dell’anno: l’uccisione del porco.

 

I GRASSI

Il maiale è il simbolo stesso del grasso ed è sempre stato allevato proprio perché ne fornisse in abbondanza.
Nei nostri tempi di terrorismo dietetico e di insulsi sacrifici alla religione della magrezza è bene ricordarne i golosi meriti.
Grasso suino per eccellenza è il lardo cioè lo strato adiposo più o meno ampio sotto la pelle o cotenna. Veniva consumato salato ed aromatizzato in due metà , in alcuni casi veniva appeso all’uscio di casa. Il lardo è bianco, rosato, sodo e morbido al tempo stesso e pronto a sciogliersi al calore delle cotture o della bocca. Era tanto apprezzato che rientra in tutti i contratti di pagamento, dai legionari romani, agli artigiani medievali, ai carrettieri dell’800.
Il lardo trasformava le minestre di verdure in gustose leccornie, pezzi di pane in straordinari stuzzichini. I non più giovanissimi ricorderanno, spero con nostalgia, il battere del coltello sul tagliere per impastare il lardo con aglio e prezzemolo e preparare il condimento. Non per nulla in dialetto il tagliere è "l’asa da pistà al lard".
Infine il lardo era elemento fondamentale di una prelibatezza gastronomica ormai scomparsa; il cervellato milanese. Il cervellato è così intimamente legato alla gastronomia suina milanese che in dialetto il salumaio è detto "cervelé" ( e non l’improbabile "salumé" dei negozi alla moda). Pur con infinite varianti è stato vanto gastronomico di Milano dal medioevo all’800.
Il secondo grasso per importanza è la sugna o mesenterio, che ricopre gli intestini. Fuso e filtrato diventa lo strutto, universalmente usato per condire e per conservare la carne.
Entrambi i grassi oltre ad usi alimentari avevano anche quelli medicamentosi, per lenire dolori reumatici e infiammatori. La sugna veniva anche usata per ungere gli assi delle ruote dei carri o i cardini delle porte
Anche l’etimologia, per quanto dubbia, sembra attribuire al lardo valore centrale nei legami familiari. Lardo da "laridum", gli dei lari protettori della casa.
Ultimo grasso sono i ciccioli ("grasei" o "gratoni" perché venivano grattati dal fondo della padella) che sono il resto solido della fusione della sugna.
Usati da sempre quasi come caramelle per la particolare sfumatura dolciastra del grasso caramellato, restano ora diffuse in poche aree, come l’Emilia, sia nella versione di pagnotte appiattite che in quella friabile.

 

IL NORCINO

Il mestiere del norcino (dalla città umbra di Norcia patria di molti di loro) era una professione molto richiesta fino a non molti anni fa quando i contadini chiamavano i "masular" più quotati per macellare i loro maiali e preparare i salumi.
Dal medioevo fino al ‘700 tutte le città avevano corporazioni di "luganegheri" che regolava gli accessi all’arte e rilasciava le patenti di maestro norcino.
Il termine milanese di "masular" deriva dalla particolare tecnica di uccisione in uso nelle nostre zone. L’animale veniva ucciso col colpo in fronte di un pesante mazzuolo appuntito.
Il norcino è anzitutto un macellaio che conosce l’anatomia della bestia per tagliare correttamente le varie parti senza rovinarle. Poi era un abile confezionatore di salumi. Fondamentalmente da lui dipendeva la riuscita o meno di una partita di insaccati. Tutti gli altri, numerosi, partecipanti al rito della maialatura erano comprimari, magari esperti, ma che seguivano le indicazioni del "masular".
Ogni "masular" aveva il proprio miscuglio di spezie , la cui ricetta teneva segreta, per aromatizzare i salumi che avevano quindi sapori e caratteristiche diverse in relazione al norcino che li aveva prodotti. Anche i tipi di budelli utilizzati erano spesso preparati dal norcino.
Questi professionisti durante l’inverno giravano di cascina in cascina, i più famosi erano richiesti anche piuttosto lontano, a volte con un giovane aiuto, a prestare la loro opera. Spesso erano pagati con parte dei salumi, in questo modo il norcino era cointeressato alla buona riuscita dei prodotti.
Gli strumenti che portava con sé erano piuttosto semplici; soprattutto coltelli, acciaiuolo, spago e fiocina per bucherellare gli insaccati. Gli strumenti più ingombranti erano del contadino.
Una volta preparati i salami venivano appesi in un locale apposito ad asciugare un certo numero di giorni a secondo della pezzatura. Da questo momento in poi la responsabilità della maturazione era del proprietario. L’asciugatura poteva avvenire con bracieri a carbone di legna che venivano accesi o spenti in relazione alle condizioni atmosferiche. Una volta asciutti venivano trasportati in un locale fresco, asciutto e ben aerato per la definitiva stagionatura. Il maggior difetto che potesse presentare un salame era "al ransc" (rancido) dovuto ad un impasto mal pressato e contenete bolle d’aria.
I primi a venir consumati erano i salumi destinati alla cottura (sanguinaccio, salamino fresco, mortadella di fegato, cotechino, salsicce). Seguivano poi quelli a pezzatura più piccola e man mano i maggiori, fino alla "bogia" confezionato con la muletta (intestino cieco del suino) dell’animale e che resisteva diversi mesi.

 

SALUMI ED INSACCATI

Vengono qui brevemente presentati solo i salumi tradizionalmente diffusi nella nostra zona escludendo l’enorme varietà di altri insaccati che hanno legami tradizionali con ambienti diversi da quello della pianura.

IL PROSCIUTTO
Questo salume non è tipico della pianura, anzi è prodotto essenzialmente in collina, ma è universalmente riconosciuto come il più pregiato.
Si hanno notizie di preparazione di prosciutti presso i Greci, ed i Romani ne erano ghiottissimi
La sua fama non è mai venuta meno.
Si tratta della coscia del maiale salata e preparata in vari modi. Può comprendere l’intera gamba fino alle falangi del piede (San Daniele) oppure fino al ginocchio (Parma). In Italia dove ci sono i più pregiati prosciutti del mondo, si usa il sistema del sale secco, a volte addizionato con salnitro in funzione antiossidante. Dopo 20 – 24 giorni si spazzola il sale in eccesso, si controllano eventuali difetti e lo si lascia riposare per 40 giorni in ambiente freddo e umido. Le cosce vengono poi lavate ed avviate alla lunga fase della stagionatura che per i prosciutti di qualità non è mai inferiore all’anno.
Nelle zone di collina predisposte si vedono grandi costruzioni con lunghe finestre dove riposano migliaia di prosciutti. Appositi consorzi di tutela garantiscono la qualità dei prosciutti più famosi, da Parma a San Daniele, da Sauris al Veneto – Berico – Euganeo.

PANCETTA
La pancia del maiale ricca di tessuti grassi è una delle più utilizzate per i salumi.
Salata e aromatizzata con diverse spezie viene fatta riposare diversi giorni, girandola e massaggiandola quotidianamente per far penetrare bene gli aromi. Ne esistono vari tipi: tesa, arrotolata, affumicata, coppata.
Era il robusto ed immancabile "spuntino" dei contadini

BONDIOLA
Con questo termine in Lombardia ed Emilia si intende la coppa dell’animale tenuta in infusione nel vino rosso e spezie e poi insaccata nell’intestino cieco dei bovini (bondeana).
È un salume a prevalenza di carne magra ampiamente venata di morbido grasso.

CACCIATORE
Insaccato a grana fine di piccole dimensioni ("caciadurit"). Tradizionalmente era misto di carne bovina. Era tra i primi ad essere mangiato dato la sua piccolezza e quindi la veloce stagionatura.
Solitamente vengono confezionate a file legate tra loro.

CAPPELLO DEL PRETE
Insaccato da cuocere tipicamente emiliano. Si tratta dell’impasto del cotechino messo in un rombo di cotenna ripiegato per la diagonale minore e cucito ai lati esterni.
Il nome deriva dalla somiglianza col tricorno un tempo portato dai sacerdoti.

CERVELLATA
Distintivo e vanto della salumeria milanese fino al secolo scorso, oggi completamente scomparsa.
Non si sa se centri qualcosa il cervello. Era fatto con pancia dell’animale, lardo formaggio, uvetta e spezie varie. Tutto ben tritato in un impasto morbido e poi insaccato in budelli aromatizzati con zafferano.
Aveva la forma delle attuali salsicce e si consumava sia crudo che cotto oppure per aromatizzare risi.

COTECHINO
Altra celebre gloria emiliana.
Impasto di carne magra, grasso e cotenne tritate, alle quali possono aggiungersi semplicemente aglio e sale o vari tipi di spezie.
Richiede una cottura piuttosto prolungata in acqua che non deve assolutamente bollire ma appena fremere, come per tutti i salumi da cuocere.

CULATELLO
Re e imperatore assoluto tra i salumi. Celebratissimo da buongustai e poeti. Ormai quasi irraggiungibile per i prezzi stratosferici. È vanto della bassa parmense tra Zibello e Busseto, dove stagiona non meno di un anno tra le fitte nebbie e l’afa estiva. È composto dai muscoli esterni della coscia in parte privati del grasso, salati ed insaccati nella vescica.
Prima di consumarlo va fatto macerare qualche giorno nel vino (bianco o rosso? La disputa è irrisolvibile).

FIOCCHETTO
Parente povero del culatello, fatto con i muscoli piccoli della coscia scartati dal suo nobile cugino.

LUCANICA
È la salsiccia che per chissà quale ragione storico linguistica è chiamata così solo nei dialetti lombardi e veneti.
Varrone dice che le legioni romane la scoprirono conquistando appunto la Lucania e da allora si è diffusa ovunque con un successo mai venuto meno.
È un impasto di magro e grasso suino con sale e pepe e insaccato in budelli sottili e lunghi. Viene venduta solitamente a metro. Vi sono varietà aromatizzate con cumino, semi di finocchio, vino, spezie varie. Va generalmente consumata fresca dopo breve cottura.

MORTADELLA
Ancora l’Emilia Romagna ha dato al mondo quello che è forse il più povero tra i salumi di grande successo. È infatti universalmente nota come Bologna.
È un salume cotto composto da cotenna, grasso, rifilature di altri tagli, trippe. È tritato molto finemente ed aromatizzato con sale e pepe i grani. È ormai insaccato quasi solo in involucro artificiale.
Nonostante sia quasi un prodotto di scarto ha conquistato tutti con il suo colore roseo, il profumo suadente ed il sapore succulento.

MORTADELLA DI FEGATO
Specialità dell’area tra Piemonte e Lombardia. È un impasto a grana fine di fegato, carne magra, pancetta fresca, sale e pepe, spezie, un poco di zucchero e vino.
Ha forme tondeggianti oppure di un lungo salame ripiegato su se stesso. Si consuma quasi esclusivamente cotta.

PROSCIUTTO COTTO
Benché la cottura del prosciutto risalga perlomeno al Rinascimento, è solo la moderna tecnologia che ne ha permesso un’ampia diffusione. È dunque prodotto esclusivamente industriale. La qualità varia moltissimo in relazione alla materia prima. Dalle piene e profumate cosce nazionali alle spente e fibrose culatte danesi e olandesi, magari surgelate.

SALAME
Il dizionario direbbe che è un impasto di carne magra e grassa di suino, mescolato con sale e spezie, insaccato, stagionato e consumato crudo.
In realtà ne esistono migliaia di varietà.
Si citano qui solo le più famose

Di Milano o crespone
Salame a pasta fine composto da suino, bovino e lardo, sale e pepe. Dovrebbe essere insaccato in budelli naturali e legato a mano. Ha dimensioni piuttosto grosse.

Di Felino
Forse il più famoso. Di puro suino, a grana media ed insaccato nel budello gentile che gli da la caratteristica forma allungata. Nell’impasto entrano anche vino e aglio.
Dovrebbe stagionare circa sei mesi ed in questo caso il peso si riduce di più di un terzo aumentandone i costi.

Di Varzi
Vanto dell’Oltrepò pavese. È a grana grossa con un misto di grasso duro e carni magre, sale, pepe e aglio pestato nel vino bianco. Insaccato nel cresponetto suino è lungo circa trenta centimetri ed ha lunga stagionatura; 6 – 12 mesi.

SALAM ‘D LA DUJA
Tipico della pianura piemontese. La douja è un vaso di terracotta dove vengono poste salamelle poi coperte con grasso fuso che le mantiene morbide e saporose.

SPALLA
Celeberrima quella di San Secondo Parmense. È spalla disossata, messa in infusione nel vino bianco, massaggiata con sale, insaccata nella vescica e lessata a lungo.

ZAMPONE
Altra gloria emiliana. È l’impasto del cotechino messo nello zampetto anteriore disossato. Data la presenza della cotenna richiede lunga cottura nell’acqua che al solito non deve bollire ma fremere. Ha avuto uno straordinario successo come piatto di capodanno e se ne vendono versioni precotte e sottovuoto.

SANGUINACCIO
Il "masapan" storico. Impasto di sangue, scarti e rifilature con aggiunta di pane rinvenuto in vino ( oggi non più usato), aglio e spezie.
È un saporitissimo salume da far cuocere lentamente e ormai diffuso solo in poche aree tra cui il milanese.

 

IL TESTAMENTO DEL PORCO

Il maiale e i suoi gustosi prodotti sono stati celebrati in versi da schiere di letterati di tutti i tempi, riconoscenti al nobile suino per i suoi preziosi doni.
Tra le moltissime opere la più interessante è certamente il "Testamentum porcelli".
Se ne ha notizia fin dai primi secoli della nostra era, e San Girolamo dice che veniva recitato come una filastrocca dai bambini. Ne abbiamo moltissime versioni in latino e in volgare di diverse epoche.
Riportiamo qui i passi principali della versione che nel seicento ne ha dato l’agronomo bolognese Vincenzo Tanara, interessante anche per i molteplici usi che si facevano delle varie parti del maiale.

Prima lascio che il mio corpo sia da una caterva di golosi con varia cuocitura nel lor ventre sepelito.
Lascio a Priapo ( dio della fecondità e degli orti) il mio grugno, col quale possa cavare i tartuffi dal suo horto.
Lascio a librari e cartari i miei maggiori denti, da poter con comodità piegare e pulire le carte.
Lascio a dilettissimi Hebrei, da quali mai non ho havuto offesa alcuna, le setole della mia schiena, da poter con quelle rappezzar le scarpe e far l’arte del calzolaio.
Lascio a pittori tutti i miei peli per far pennelli.
Lascio a fanciulli la mia vescica da giocare.
Lascio alle donne il mio latte, a loro proficuo e sano.
Lascio la mia pelle a mondatori e mugnai, per far recipienti da acconciar i grani.
Lascio metà delle mie cotiche a scultori, per far colla da stucco, e l’altra metà a quelli che fabricano il sapone.
Lascio il mio sebo a candelottari, per mescolarlo a metà col bovino e il caprino e far ottime candele, con le quali i virtuosi potran nella quiete della notte studiare.
Lascio metà della mia songia a carozzieri, bifolchi e carratieri, e l’altra metà a garzolari par conciare la canapa.
Lascio le mie ossa a giocatori, per far dadi da giocare.
Lascio a rustici mikei nutritori, il fiele, per poter senza spesa cavar le spine dal loro corpo, quando scalzi e nudi nel lavorar la terra gli fossero entrate nella pelle, e per poter senza spesa, in luogo di lavativo, l’indurato corpo irritare.
Lascio agli alchimisti la mia coda, acciò conoscano che il guadagno che sono per fare con quell’arte è simile a quella che io faccio col dimenar tutto il giorno la detta coda.
Lascio agli ortolani le mie unghie, da ingrassar terreno per piantar carotte.
In tutti gli altri miei lardi, presciutti, spalle, ventresche, barbaglioe, salami, mortadelle, salcizzotti, salcizze ed altre mie preparationi, instituisco e voglio che sia mie herede universale il carissimo economo villeggiante.

(Vincenzo Tanara, L’economia del cittadino in villa, Venezia, 1665)

 

RICETTE

Tutti i ricettari storici si riferiscono alla cucina delle case borghesi, e quelli milanesi non fanno eccezioni. Non esistono quindi, o quasi, ricettari che riportino la tradizione alimentare contadina o comunque delle aree rurali. E’ vero che la tradizione borghese è spesso influenzata da quella contadina e viceversa, in una società in cui gli scambi alimentari erano ben più frequenti di quello che possiamo pensare, ma in ogni caso un vero "ricettario" dei cibi popolari nelle nostre campagne per periodi storici relativamente recenti (l’ottocento) è solo parzialmente disponibile. Le ricette qui riportate cercano di tener conto sia dei ricettari storici di cucina milanese, sia delle tradizioni delle campagne. In ogni caso sono state più o meno ampiamente rielaborate ed adattate alle possibilità di cottura attuali. Bisogna infine ricordare che non esiste una ricetta canonica, ogni famiglia aveva una sua particolare versione dello stesso piatto, che poteva variare, anche in maniera piuttosto ampia da quello di famiglie o di paesi vicini. Quello che conta è l’utilizzo di ingredienti fondamentali simili e di tecniche di cottura equivalenti.

INSALATA DI ORECCHIA DI MAIALE

Un’orecchia – due scalogni – fagioli dell’occhio – sale – pepe – olio extravergine.
Fare lessare per circa un’ora e un quarto l’orecchia in acqua aromatizzata con grani di pepe. Con un coltello affilato separare la carne dalla cartilagine interna. Mettere la carne in una terrina, pressarla e lasciarla riposare in frigorifero qualche ora, ne risulterà un composto compatto e gelatinoso. Tagliare la carne a striscioline, aggiungere gli scalogni tagliati molto sottili ed i fagioli lessati. Salare, pepare e condire con olio.

PIEDINO CON SALSA VERDE

Spaccare i piedini per il lungo, portarli ad ebollizione in abbondante acqua. Dopo qualche minuto di bollore scolare i piedini e buttare l’acqua di cottura. Rimetterli in acqua fredda, riportarli ad ebollizione e farli cuocere finchè la carne tende a staccarsi dalle falangi. Disossarli ancora caldi e condire con salsa verde preparata almeno due giorni prima.

SALUMI DA CUOCERE

Tutti i salumi vanno fatti cuocere in acqua che non raggiunge l’ebollizione ma che freme solo. Vanno prima bucherellati con uno stecchino e non con la forchetta che rischia di rompere la pelle durante la cottura. Calcolare un’ora e mezzo o due, dall’ebollizione, per il cotechino (a secondo della dimensione), un’ora per la mortadella di fegato, e quaranta minuti per sanguinaccio e salamino. L’accompagnamento classico è con purè, di patate o di zucca, ma si adattano anche cipolle stufate, fagioli lessati e verze, cotte o crude, nonché sottaceti misti, ("brusc").

GRAS PISTA’

Con un pesante coltello pestare insieme lardo, fresco o conservato, aglio e prezzemolo, fino a ridurre il tutto a purea (si potrebbe usare comodamente il robot da cucina). Aromatizzare con sale e pepe.
Aggiungere questo gustosissimo impasto alle minestre di verdure, oppure spalmarlo su fette di pane caldo.

MINESTRA CON LA "CORADA"

Far bollire un polmone di maiale accuratamente rifilato. Cuocere nell’acqua di cottura una minestra di sole verdure o di riso. A cottura aggiungervi il polmone finemente tritato e un poco di "gras pistà".

RISOTTO CON LA PASTA DEL SALAME

In una capace casseruola far rosolare a fuoco bassissimo della cipolla finemente tritata e la pasta del salame sbriciolata. Dopo 15 o 20 minuti alzare la fiamma al massimo e aggiungere il riso. Rosolare per un minuto mescolando bene. Sfumare con mezzo bicchiere di vino. Aggiungere un mestolo di brodo bollente e far asciugare. Aggiungere il rimanente brodo, sempre bollente e portare a cottura. Spegnere e mantecare con abbondante parmigiano grattugiato.

CASOEURA (CASSOEULA O CAZZOEURA)

Vero piatto simbolo della maialatura. Va cotto in porzioni abbondanti e può essere riscaldato il giorno successivo, anzi alcuni la preferiscono così. L’importante è che risulti asciutta e collosa e non brodosa (la gha da ves tachenta e no brudulusa brudulenta).
In una casseruola rosolare con un poco di lardo una cipolla, due carote, una costa di sedano, alcuni spicchi d’aglio, il tutto finemente tritato. Bruciacchiare e raschiare con cura un poco di cotenna, due codini, un’orecchia, un musetto, tutti tagliati a pezzi. Aggiungerli alle verdure e continuare a rosolare. Dopo circa mezz’ora aggiungere costine e puntine tagliate a pezzi e continuare a rosolare. Aggiungere i salamini "delle verze" e una abbondante quantità (pari a tutto il peso degli altri ingredienti)di verze tagliate a listarelle. Aromatizzare con sale pepe e noce moscata. Si può aggiungere un poco di concentrato di pomodoro per dare colore. Solitamente non richiede aggiunta di liquidi di cottura, ma se dovesse attaccare aggiungere poco brodo bollente. Calcolare almeno due ore abbondanti di cottura. Servire con polenta.

FEGATO CON LE CIPOLLE

Far rosolare abbondanti quantità di cipolle in una pirofila imburrata. A cottura ultimata aggiungere il fegato di maiale tagliato a listarelle. Cuocere per pochi minuti. Il fegato va cotto poco altrimenti. diventa duro.

ROSTICCIATA

Tagliare a fette sottili circa mezzo chilo di lonza, far rosolare abbondante cipolla in poco burro. Aggiungere le fette di lonza e cuocere per circa un quarto d’ora girando ogni tanto la carne. Dopo circa mezz’ora aggiungere tre etti di salsiccia tagliata a fette. Aggiungere pomodori pelati e far cuocere per circa venti minuti fino a che si riduce.

TORTA DI SANGUE

In una bassa casseruola far scaldare a fuoco lento il sangue di maiale. Aggiungere farina setacciata e mescolare in continuazione. Aggiungere zucchero e uva passa, mescolare e far rassodare sempre a fuoco lento. Sformare e spolverizzare con zucchero a velo. Si può anche cuocere in forno con gli ingredienti già amalgamati.